Gli albori dell’arte transmediale
Mariacristina Mansi | Dicembre, 2020 | them
Dai primi anni del duemila sta tornando l’interesse verso le esperienze le visioni estetiche che già il Bauhaus aveva iniziato a intuire. In quegli anni negli artisti, sorgeva l’esigenza di abbandonare il pigmento, superare la tradizione del linguaggio artistico, mescolandolo con la scienza e la tecnologia. A metà degli anni cinquanta, le ricerche cinetico-visuali, lo studio dei meccanismi della visione e dei fenomeni ottici, favorirono la nascita di nuovi linguaggi artistici, proponendo giochi visivi scientificamente costruiti con lo scopo di coinvolgere lo spettatore.
Nel 1965 i risultati di queste ricerche vennero esposti al MoMa di New York, in una mostra intitolata “Responsive Eye”. Tra gli artisti italiani presenti possiamo citare Getulio Alviani, Enzo Mari e il Gruppo N, il tedesco Josef Albers – professore della scuola di Weimar – e il pittore e grafico ungherese Victor Vasarely, le cui opere spesso sono esasperate nelle forme e colori a tal punto da mettere in crisi la visione. Sempre lui, si preoccupò insieme a Pontus Hulten di pubblicare il “Manifesto Giallo”, nel quale esposero nuove espressioni di un linguaggio cinetico figurativo.
Parte di quel linguaggio permane – come già detto – ancora oggi, un’esempio è “ElektroPlastique” (2009) di Marius Watz, ispirato dalle opere di Vasarely, realizza una griglia regolare, che si deforma nel tempo, i cambiamenti appaiono come un’increspatura di forme fluttuanti dai colori brillanti. Senza dimenticare i lavori in bianco e nero, che affascinano sempre col loro tono minimal, visibile per empio in “GeoNerve” (2004-2008) di George Legrady, una matrice animata creata con un software, le celle della matrice transitano tra due stati, relazionandosi con le sue vicine secondo un modello matematico del fisico Ernst Ising.
Le ricerche dei fenomeni percettivi di radice optical, iniziarono ad intrecciarsi con quelle degli artisti cinetici e programmati, sempre più devoti alle moderne tecnologie e ai materiali dell’industria. L’opera era un progetto tecnico, in relazione con lo spettatore, che spesso diveniva elemento determinante, invitato a mettere in funzione l’opera attraverso meccanismi, pulsanti, leve, o immettendo aria…
L’Italia offrì un’importante contributo alle ricerche di arte cinetica, con artisti e professionisti, desiderosi di modernità, tecnica e scienza. Nel 1962 venne pubblicato l’Almanacco Letterario Bompiani, e al suo interno vennero pubblicati i disegni degli artisti del Gruppo T – di tempo –, la copertina era opera di Bruno Munari. Nel maggio del 1962 lo stesso Munari curò una mostra intitolata “Arte Programmata”, presso il negozio Olivetti nella Galleria Vittorio Emanuele a Milano.
Grazie all’importante contributo di Adriano Olivetti, che con la sua azienda si fece sponsor e supporto tecnico per la messa a punto dei lavori, i milanesi Gruppo T (Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi, Grazia Varisco) e i padovani Gruppo N – precedentemente Gruppo Ennea, – da “nove” in greco – (Alberto Biasi, Enzo Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi, Manfredo Massironi), crearono dodici opere che sorpresero il pubblico. Tra queste, una superficie magnetica di Davide Boriani del Gruppo T, rappresentante un labirinto sinuoso all’interno del quale pagliuzze metalliche si muovevano nello spazio spinte dai campi magnetici, o la struttura alterabile di Alberto Biasi del Gruppo N, era composta da una base bianca con al di sopra posizionati – secondo una matrice quadrata di punti – dei segmenti metallici neri inclinati con una parte mobile, con i quali lo spettatore poteva interagire per ottenere interessanti variazioni dell’effetto visivo dell’opera.
La possibilità dell’espressione di questo modo di fare arte, spalancherà gli orizzonti a nuovi fenomeni e scenari meravigliosi da esplorare nel mondo e nella new media art.