L’espansione dell’arte transmediale
Mariacristina Mansi | Febbraio, 2021 | them
Nel 2013 Lev Manovich nel testo Software Takes Command, sottolinea il grande uso di app, algoritmi, Machine Learning, Big Data e Data Visualization, i quali mappano e compongono la nostra vita e cultura contemporanea. Uno dei software artist più conosciuti è Aaron Koblin, in Flight Patterns del 2010 trasforma i flussi di dati delle rotte aeree in fascinose visualizzazioni, l’opera si può acquistare tramite il sito web Saatchiart.com, stampabile in vari formati e supporti a partire da 40 dollari.
Negli ambiti della New Media Art le opere spesso sono time-based, ossia basate sul tempo della fruizione, aggiungendo la dimensione della durata insieme alla lunghezza, larghezza e altezza dell’opera. Un esempio è l’installazione Sculpture Factory di Davide Quayola presentata al festival Ars Electronica, che mette in mostra l’atto performativo della macchina come un oggetto artistico, in un processo in tempo reale che svela la statua secondo processi computazionali prestabiliti che ripercorrono le azioni dello scultore originale. Quayola, indaga il classico e il tecnologico, il fisico e il virtuale, in una splendida applicazione di fabbricazione digitale che replica fino al più piccolo dettaglio le sculture dell’arte antica.
Gli artisti devono interessarsi delle macchine, abbandonare i romantici pennelli, la polverosa tavolozza, la tela e il telaio; devono cominciare a conoscere l’anatomia meccanica, il linguaggio meccanico, capire la natura delle macchine, distrarle facendole funzionare in modo irregolare, creare opere d’arte con le stesse macchine, con i loro stessi mezzi.
Bruno Munari
Il performer e body artist Stelarc, spinge la creazione dell’opera sul suo stesso corpo in The third hand, un terzo braccio robotico. Egli progetta un’anatomia alternativa, mettendo alla prova i propri limiti fisiologici e psichici. Con l’uso di protesi robotiche ha fatto del suo corpo un’opera meccatronica, con innesti tecnologici, atti a ridefinire un corpo umano altrimenti obsoleto.
Grazie alla creazione di Processing nel 2001, un software free e open-source sviluppato all’interno dell’MIT Media Lab da Casey Reas e Ben Fry, un numero sempre maggiore di artisti, designer e creativi si approccia a fare arte col codice. Successivamente sono nati sempre più applicativi simili nel corso degli anni, tra cui VVVV, OpenFrameworks, Cinder, e da pochi anni Hydra di Olivia Jack, ispirata dai sintetizzatori video analogici. Sempre Casey Reas insieme a Massimo Banzi e alcuni membri dell’Interaction Design Institute di Ivrea, lanciano il progetto Arduino nel 2005, che apre l’open-source anche alle tecnologie hardware, permettendo a una grandissima quantità di creativi, hobbisti e professionisti che non hanno conoscenze nella programmazione e nell’elettronica di creare oggetti che funzionano e interagiscono con l’ambiente circostante, favorendo sempre più l’uso della tecnologia come espressione creativa.
“La macchina deve diventare un’opera d’arte”, aggiunge Bruno Munari nel Manifesto del Macchinismo preannunciando lo scenario a cui abbiamo assistito in questo viaggio nella transmedia art. Dagli anni cinquanta ad oggi, gli artisti hanno salvato e continueranno a salvare l’umanità, liberandola dalla schiavitù delle macchine, trasformando e codificando le stesse in qualcosa sempre in grado di stupirci, come solo l’arte sa fare.
Questo articolo fa parte di una serie, hai già letto gli altri due? Li trovi qui:
Gli sviluppi dell’arte transmediale
Gli albori dell’arte transmediale