Consigli di lettura

Pablito El Drito | Gennaio, 2025 | them


Stefano Ghittoni (a cura di), Musica concreta. Come la musica mi ha salvato la vita, Milieu

Mi hanno sempre affascinato i libri con un titolo sviante, che ti lasciano intendere qualcosa e invece poi si rivelano parlare d’altro. Questa miscellanea di testi messa insieme da Stefano Ghittoni tira in ballo il nome di un filone della musica contemporanea inaugurato da Shaeffer, ma ha a che vedere con le esperienze concrete di una quarantina di personaggi legati all’ambiente della musica indipendente nelle sue declinazioni pop, rock e elettroniche. Ideale spinoff del riuscitissimo Milano Off, di cui avevamo già parlato in questa rubrica al momento della sua uscita, il libro è una raccolta di testi messi insieme dai vari partecipanti, tra cui il sottoscritto. Sono scritti che raccontano formazione e presa di consapevolezza (Bruno Dorella parla giustamente di “epifanie”) di musicisti, dj, promoter, produttori, performer che hanno deciso o si sono ritrovati a vivere di, grazie e con la musica. Chi lavora con la musica sa quanto è duro farlo. Nel nostro paese il suono e la sua pratica non sono considerati cultura, ma, se va bene un passatempo. Inoltre non esiste un inquadramento legislativo che tuteli chi di musica vive come accade in altri paesi europei. Eppure il libro non è una raccolta di lamentele rivolto ai nostri politici poco sensibili al bello, nessuno si rivolge a loro, a quei tristi zombie per il 90% convinti – a torto – che “di cultura non si vive” (celebre perla dell’ex ministro dell’economia Tremonti). Perché se anche di cultura e di musica di fa fatica a vivere le pagine di questa seconda prova di Ghittoni proiettano una caleidoscopio straripante di passioni, emozioni, sincero amore per la musica. Raccontano vicende spesso molto intime, che mettono a nudo i partecipanti, un gruppo di ragazze e ragazzi nati negli anni sessanta e settanta, che hanno inseguito e tuttora inseguono un sogno che non li abbandona da decenni. Sogno che, tra mille alti e bassi, dà loro da vivere, alla faccia della feccia ignorante che ci malgoverna.

Julius S. Scott, La rivoluzione corre sulle ali del vento, Eleuthera

Julius S. Scott era un nome che non conoscevo fino a quando non sono incappato nella traduzione di questo testo uscito nel 2018 su Verso con il titolo The Common Wind: Afro-American Currents in the Age of the Haitian Revolution. Il libro, edito in Italia da Eleuthera, è già un classico nel mondo anglosassone e sono sicuro che diventerà anche nel nostro paese un must della storiografia sulla schiavitù e sui rapporti tra Caraibi, Europa e Atlantico. Lo studio di Scott affronta un tema sottovalutato in Europa: quello delle rivolte caraibiche ispirate dalla rivoluzione americana, ma soprattutto di quella francese. Infatti non tratta solo di rivolte anti-coloniali, in cui le isole sotto il controllo inglese, spagnolo e francese rivendicano forme di autonomia o indipendenza dalla madrepatria. Il libro racconta di come il “contagio rivoluzionario” si sia diffuso anche tra gli schiavi delle piantagioni di zuccherò e caffè e tra i neri liberi delle isole caraibiche, generando lotte antirazziste contro schiavitù e tratta. In particolare, Scott si interessa alle reti di comunicazione usati dai rivoluzionari per fare filtrare i messaggi emancipatori e dalle élite dei piantatori che controllavano le isole nel cercare di limitarne gli effetti. Ma come si fa in isole costellate di porti e porticcioli a impedire che insieme agli schiavi e alle merci non si muovano le informazioni? Come potevano le élite locali impedire che i marinai bianchi, sottoproletari del mare imbevuti di odio di classe, non solidarizzassero con gli schiavi neri delle piantagioni? Tutto quel che avreste voluto sapere sulle lotte per l’emancipazione sociale (nera e non solo) iniziando dalla metà del diciottesimo secolo, passando per l’indipendenza di Haiti (1804) fino l’insurrezione degli schiavi nella Louisiana del 1811, raccontato in maniera impeccabile da un appassionato storico afroamericano fino ad oggi inspiegabilmente poco conosciuto nel nostro paese.

Aime e de Georgio, Il grande gioco del Sahel, Bollati Boringhieri

Il libro di cui mi appresto a scrivere non è appena uscito, ma è sugli scaffali delle librerie da settembre 2021. Tuttavia, visto che è un testo molto importante per comprendere le dinamiche della fascia subshariana, ho deciso di recensirlo, anche se con un ritardo di tre anni circa. Il Sahel è una striscia lunga più di ottomila chilometri che attraversa ben dodici stati (Gambia, Senegal, Mauritania, Mali, Burkoina Faso, Niger, Nigeria, Camerun, Ciad, Sudan, Sud Sudan e Eritrea) caratterizzata più dal clima e da caratteristiche ambientali e sociali che non politiche. É una zona molto arida, in cui le condizioni di vita sono estreme, e in cui il nomadismo, molto praticato, è una strategia di sopravvivenza più che una scelta. Il testo parte da considerazioni legati alle culture materiali e alle pratiche di vita delle popolazioni saheliane – in parte agricoltori, in parte allevatori, in parte pescatori – per studiarne i conflitti sempre più duri e frequenti a causa dell’inasprimento del clima e della carenza d’acqua. All’acqua e alla sua gestione è dedicato un intero capitolo, come anche all’islam e alle sue varianti. In particolare la religione del profeta è letta come una forma di globalizzazione sui generis, anche se poi al suo interno è divisa in correnti in concorrenza tra loro. Il Sahel è stato per secoli anche una frontiera percorsa da scambi di sale, oro e schiavi, mentre ora è percorso da armi, droga e migranti che sono trattati come schiavi, come ci racconta il quarto capitolo. Chiude il testo una disamina sulla storia delle città del Sahel, dalle origini che si perdono nel mito fino ai progetti di rinnovamento urbano di Bamako e Dakar.

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