Consigli di lettura, speciale dicembre!
Pablito El Drito | Dicembre, 2024 | them
Paul Feyerabend, Conoscenza e libertà. Scritti anarco-dadaisti, Eleuthera
In Contro il metodo (1975), il suo più celebre scritto , Paul Feyerabend affermava “Un anarchico è come un agente segreto che giochi la partita della ragione allo scopo di minare l’autorità della ragione (della verità, dell’onestà, della giustizia, etc)”. In quel testo, che ha rivoluzionato l’epistemologia, il filosofo austriaco si è interrogato sui limiti di validità delle regole di un presunto metodo scientifico, abbracciando uno sfrontato opportunismo metodologico. É quanto conferma negli scritti raccolti in questa nuova pubblicazione curata da Marco Collodel e Luca Guzzardi per Eleuthera.
Originariamente pubblicate tra il 1974 e il 1985, anche queste riflessioni di Feyerabend mettono in crisi i tentativi di giustificare la scienza su basi metodologiche: Non solo, denunciando il potenziale autoritario delle istituzioni scientifiche, il filosofo ribadisce che controllo democratico e partecipazione politica sono le uniche garanzie di una società libera.
Sebbene queste riflessioni risalgano a cinquant’anni fa (e risuonino come parole d’ordine del movement e della controcultura degli anni settanta) sono straordinariamente attuali, come anche quelle di altri straordinari pensatori libertari suoi contemporanei, principalmente statunitensi, come Noam Chomsky, Murray Bookchin o dell’austriaco Ivan Illic. Ma si riverberano anche nelle pratiche degli hacker etici, da Richard Stallmann al Chaos Computer Club.
La prosa di Feyerabend è molto giocosa e provocatoria, anche quando il pensatore affronta temi complessi come le questioni di filosofia e storia delle scienza o le intersezioni, difficili eppur fondamentali da dipanare, tra scienza, etica e politica. Conoscenza e libertà. Scritti anarco-dadaisti farà felici gli appassionati di epistemologia, ma anche chi è più interessato alla riflessione politica. In più, nonostante i temi ardui, l’ottimo Feyerabend si sforza sempre di essere comprensibile a tutti.
Anton Jager, Iperpolitica, Nero
Il trentenne belga Anton Jager in questo breve saggio appena pubblicato per Nero si occupa di estetica e politica, concentrando il suo ragionamento sul periodo successivo alla fine del secolo breve. Il giovane storico del pensiero politico mette in risalto come, in parallelo al crollo dei regimi del socialismo reale, in occidente abbiamo assistito all’abbandono in massa dei partiti politici e dei sindacati, come anche alla diserzione delle pratiche associative e degli ambiti collettivi.
Gli anni novanta, quindi, hanno portato non tanto alla fine della storia teorizzata da Fukuyama, quanto piuttosto alla fine della politica per come si era strutturata con i partititi di massa del 900, all’aumento della solitudine e delle pratiche individuali. Quando, in seguito alla crisi finanziaria del 2008, la società si è ripoliticizzata, il processo è avvenuto in un frame in cui la società era fortemente atomizzata già prima del trionfo dei social media che l’hanno sfarinata ulteriormente.
Le proteste del periodo del populismo e dell’antipolitica sono state brevi e intense (Occupy, Black Lives Matter, Gilets Jaunes, Indignados e movimenti contro il carovita), delle fiammate isolate in un deserto di inazione e non hanno prodotto dei percorsi politici duraturi. I partiti politici, infatti, sono sempre più liquidi e espressione dei gusti del/della leader più che di un gruppo sociale definito come in passato.
La sfida che propone questo libro, che ricapitola teorie economiche, filosofiche e politiche, è quello di spingere il lettore a cercare nuove forme e spazi in cui fare politica vera, condivisa, partecipata. Una critica che mi è sorta spontanea è che l’autore tenda a ridimensionare i movimenti anti-globalizzazione degli anni novanta, culminati nel G8 di Genova, che a mio avviso, da seguace di David Graeber e avendovi partecipato in prima persona, non possono essere gettati nel calderone dell’ “antipolitica”. Detto questo, mi stupisco sempre di come Nero, grazie a una grafica pop dirompente, riesca a fare diventare sexy anche un testo teorico che altrimenti sarebbe rimasto chiuso nel autoreferenziale“recinto” accademico.
Alessandro Volpi, Nelle mani dei fondi. Il controllo invisibile della grande finanza, Altreconomia
Sulla scena globale sono emersi negli ultimi quindici anni alcuni colossi finanziari in grado di raccogliere una quota enorme del risparmio planetario. Vanguard, BlackRock, State Street e un’altra manciata di fondi dalla struttura proprietaria opaca indirizzano da tempo fiumi di denaro verso le società presenti nei principali indici azionari occidentali. Hanno preso il controllo di gran parte delle prime cinquanta aziende quotate allo Standard and Poor’s come anche ai società pubbliche che gestiscono infrastrutture vitali per la sovranità di un paese, penetrando così in settori di rilevanza pubblica, garantendosi in alcuni settori, grazie a partecipazioni incrociate, una posizione di monopolio.
Questi fondi, nati negli Stati Uniti a cavallo degli anni settanta e ottanta, sono usciti rafforzati dalla crisi finanziaria del 2008 , e ora sono più forti delle banche stesse. I più grandi si stanno diffondendo ovunque e in ogni settore, drenano tutto il risparmio offrendo servizi assicurativi, pensionistici e sanitari, per emancipare l’upper class dal welfare statale in crisi. In più, essendone azionisti, controllano anche le valutazioni delle agenzie di rating.
Il libro di Volpi offre un’esaustiva panoramica su quanto sta avvenendo in ambito finanziario e economico a livello mondiale. Il “libero” mercato (che per me è un concetto fumoso, ma in cui pare che Volpi, storico autorevole, creda molto più di me) secondo lui è solo un ricordo, e questo aumenta diseguaglianze e storture. Lo scritto è importante perché contribuisce ad alimentare il dibattito pubblico su delle entità che sono in grado di minacciare con il loro strapotere la democrazia e i diritti sociali e dei lavoratori che evidentemente la politica odierna – spesso per ignoranza, ma più facilmente per collusione con i dirigenti di queste enormi società – si rifiuta di tutelare.
Steve Goodman, Guerra sonora, Nero
Lo spessore del libro al momento dello spacchettamento mi ha subito intimorito. Mi aspettavo un libriccino agile… e invece questa raccolta di saggi di Steve Goodman, musicista, dj e teorico britannico, nonché fondatore dell’etichetta Hyperdub , è un testo complesso, che mescola cultura sotterranea, immaginari pop e pratiche di strada (cose che conosco e che non fatico a comprendere) con tanta Filosofia con la F maiuscola. Questa sua natura alta, lo rende di ardua lettura, almeno per me, in alcuni suoi saggi e passaggi. Sono rimasto colpito da alcune intuizioni, come per esempio il concetto di complesso militare-intrattenimento, secondo cui target sempre siamo, se non delle bombe, almeno del marketing.
Mi sono abbuffato di informazioni sulle tecniche psyops (operazioni psicologiche, nel caso del libro acustiche, utilizzate in guerra), come anche dai capitoli sul legame tra techno e afrofuturimo, che risuonano molto con la visione degli originator detroitiani (altri membri della CCRU – sodali di Goodman – in passato su questo tema han preso degli abbagli notevoli). Alcuni saggi sono veramente interessanti e si divorano. Detto questo, per la mia ignoranza in fatto di filosofia della seconda metà del novecento, ho incontrato una grande difficoltà nella lettura di alcune parti, che mi è toccato saltare perché non padroneggio la filosofia di Deleuze, Guattari, Massumi etc…
Guerra sonora, di cui ho gradito e apprezzato il versante pop, diy e controculturale, è una susseguirsi di intrecci tra cultura alta, accademica, e bassa, stradale, e questo fatto lo rende tanto affascinante, quanto di difficile lettura. Astutissima la grafica della cover, che porta a camuffare un lavoro accademico da prodotto pop, e quindi a “venderlo” a profani di filosofia contemporanea come me, che poi però non sempre sono in grado di apprezzarlo del tutto.
Figoni e Rondi, Gorgo CPR. Tra vite perdute, psicofarmaci e appalti milionari, Altreconomia
“L’orrore si manifesta con forme e sfumature diverse, e quella di nasconderlo è un’arte ragionata, calibrata al millimetro”. Di orrori, in questo libro-inchiesta appena pubblicato da Altreconomia, ce ne sono a bizzeffe. Trattamenti umilianti, torture, abusi psichici e fisici, privazioni di ogni tipo sono all’ordine del giorno nei luoghi di concentrazione istituiti dal 1997 per “trattenere” persone di diversa nazionalità che non hanno commesso nessun reato, ma che sono privi di permesso di soggiorno. Si sono chiamati Cie, Cpt, Cpr. Sono stati gestiti da grandi gruppi, cooperative o multinazionali. I tempi di permanenza degli “ospiti” si sono dilatati da 1 mese fino gli odierni 18 mesi. Quel che non è cambiata è la natura di questi luoghi gestiti da privati, dove gli ultimi degli ultimi vengono imprigionati senza aver commesso un reato e vivendo quasi sempre in condizioni peggiori di quelle carcerarie o degli ex manicomi. “Gorgo Cpr” denuncia le frodi, le bugie e le reticenze degli enti gestori, gli abusi burocratici di cui i prigionieri sono vittime in barba ai diritti umani e alle leggi, i servizi inesistenti o deficitari, il cibo scadente, i mancati controlli delle prefetture, il bluff dei rimpatri (poco più del 40% degli “ospiti” sono effettivamente ricondotti al paese d’origine). In più fa luce sulla sedazione di massa cui gli internati sono vittime. Un fatto che contribuisce a rendere i Cpr – nove sono attivi al momento – dei luoghi patogeni, in quanto fanno ammalare i propri ospiti di malattie di ogni tipo. Un’inchiesta seria, autorevole e documentata, che arriva a parlare anche dell’esportazione del modello italiano in Albania.
Fant e Milani, Pedagogia hacker, Eleuthera
La tecnologia, il cui impatto riguarda tutti, è una cosa troppo seria per essere lasciata solo nelle mani delle multinazionali e dei tecnici. Inoltre è sempre politica in quanto agisce nello spazio pubblico. Questo il punto di partenza di Davide Fant, formatore eclettico e multidisciplinare, nonché responsabile di Anno Unico, “la scuola di chi non va a scuola” e di Carlo Milani, filosofo-programmatore oltre che stimato traduttore, già autore nel 2022 di Tecnologie conviviali, uscito sempre per Eleuthera. Pedagogia hacker è un manuale che si rivolge principalmente a formatori, educatori e insegnanti che vogliono riflettere sul potere, anche nel rapporto con le tecnologie, al fine di creare condizioni di condivisione tecnologica e di emancipazione dagli “esperti” di turno.
Il libro si apre con un gioco di ruolo adatto a preadolescenti come ad adulti, che aiuta a capire il rapporto dei partecipanti con la tecnologia e l’organizzazione sociale, ma che è in grado di svelare anche i tratti psicologici e relazionali dei giocatori. Prosegue raccontando le esperienze vissute durante le decine e decine di laboratori che, membri del collettivo CIRCE, i due autori hanno tenuto negli ambienti più diversi: dagli hackmeeting alle scuole medie e superiori, dalle compagnie teatrali alle aziende fino ai collettivi politici. Pedagogia hacker propone un approccio dialogico e esperienziale, e non lezioni frontali di tipo accademico. Un approccio giocoso e curioso eppure critico, che possa creare più consapevolezza nel rapporto uomini-macchine. Discepoli di Donna Haraway, di Petr Kropotkin come anche a mio avviso di Primo Moroni, di cui è come se risuonasse in ogni pagina il motto “Condividere saperi senza fondare poteri”, gli autori credono che la vera democrazia consista nel distribuire il sapere e quindi il potere.