Riutilizzo e appropriazione delle immagini digitali
Luca Fossa | Maggio, 2021 | them
Fin dall’inizio dell’arte del 1900 le immagini utilizzate dagli artisti erano spesso riprese da altre fonti come pubblicità, icone, ritagli di giornale, oggetti della vita quotidiana usati in modo magistrale delle più innovative correnti artistiche. Dai Cubisti come Pablo Picasso per le sue tele con oggetti incollati o dai Dadaisti come Hannah Hoch nei suoi collage, Raoul Hausmann coi suoi manichini, il Nouveau Realisme con l’esposizione del 1960 “Le Plein” dell’artista francese Arman che ha riempito letteralmente di oggetti di vita quotidiana la galleria “Iris Clert” di Parigi, (dopo la mostra “Le Vid” di Ives Klein in modo totalmente provocatorio).
Per poi arrivare alla pop art, come ci ha mostrato in modo ironico l’inglese Richar Hamilton nei suoi collage di pubblicità, Andy Warhol nella trasposizione serigrafica d’immagini iconiche dello spettacolo e della politica dell’epoca, fino ai grandi dell’arte di appropriazione come Richard Prince con il suo importantissimo cowboy della Marlboro o Sherry levine con le rifotografie di importanti fotografi come Walker Evans.
Dopo questi grandi maestri dell’arte e che continuano a dare grande ispirazione e hanno in un certo senso rivoluzionato il modo di vedere le immagini e il mondo, chi ha cercato di utilizzare nuovi mezzi per modificare, usare e reinterpretare, aggiungere significato e sfruttare a proprio piacimento immagini fatte da altri, da corpi immobili e continuamente osservanti come le telecamere, o programmi per vedere strade e spazi della terra?
La fotografia è il mezzo che più serve per la produzione e riproduzione d’immagini e oggi il mondo ne è un fiume in piena. Di qualunque tipo anche se già all’inizio della sua storia, le fotografie crearono una quantità smisurata di stampe e matrici. Ora ci troviamo in un mondo fluido e veloce.
I dati si trasmettono attraverso codici, le immagini vengono lette da sensori sensibili ai fotoni e trasformate in codice binario per poi essere continuamente cancellati e riscritti in sequenze diverse.
L’epoca contemporanea è sotto una dittatura sociale e immaginifica dell’immagine, siamo diventati schiavi di uno schema visivo, ci vengono imposti dei canoni e molte volte le persone hanno ripercussioni sul proprio essere e sulla propria vita sociale, ma il mondo virtuale può diventare anche una terapia o un modo di esplorare quello reale e di affrontare le proprie paure. Come nel caso di Jacqui Kenny neozelandese ma trasferitasi a Londra, soffre di Agorafobia, una psicopatologia che crea ansia alla persona quando si trova in spazi aperti o in mezzo ad una grande folla di gente ma la sua voglia di scoprire posti nuovi la spinge a cercarli su internet precisamente usando Google Maps. Realizza scatti di spazi in cui le immagini siano percepibilmente calde e sospese, cercando una complessa composizione e colore che si avvicina a quella di Luigi Ghirri, colori tenui che trasmettono grande emozione e l’osservatore, in questo caso anche la stessa fotografa si torva catapultato in un altro posto mai visto prima con un’aria poetica che si sposta da uno scatto all’altro. Ha anche una pagina instagram dove posta i suoi scatti chiamata “streetview.portraits”.
Molti artisti hanno cercato di confrontarsi con questo programma con intenti più disparati come Jon Rafman, ormai importante artista post internet, ha cominciato un progetto in continuo sviluppo chiamato “9 eyes.com” il 9eyes, fa riferimento alla fotocamera dotata di nove fotocamere che viene posta sopra la macchina di google street view per immortalare ogni strada che percorre. Sapendo questo alcune persone hanno deciso di mascherarsi mentre altre vengono immortalate in momenti non particolarmente piacevoli della loro vita o in casi in cui accade qualcosa di assurdo dal nulla, ricordando in un certo senso gli scatti di Joel Meyerowitz, quell’accadimento momentaneo che disturba, crea scompiglio ma composizione armonica nell’attimo in cui viene vista. Ironico e certe volte immorale (il mondo, non Jon Rafman) ci mostra quanto l’essere umano possa arrivare a essere inquietante nella quotidianità catturata da una macchina fredda e insensibile come quella di google, un dialogo tra l’oggetto e l’uomo oggetto quello fatto da Rafman semplicemente realizzando screenshoot dal suo computer, uno sguardo distaccato che fa riflette sull’esistenza e sulla inconsapevole cattiveria umana ma con una visione ancora poetica e malinconica della bellezza della natura.
Doug Rickard è un artista americano che probabilmente più ha utilizzato google street view e youtube nei suo progetti, con un’ enorme ricerca nella composizione dell’immagine nel software ricercando le immagini che si avvicinassero alle fotografie dei paesaggisti americani come Stephen Shore e William Egglestone, per citare i due più importanti, realizzando nel suo primo progetto “A New American Picture” un libro di nuove fotografie di paesaggio realizzate sempre da altri, riutilizzando gli screenshoot e ricreando un’ opera autoriale di narrazione e testimonianza di paesaggi americani contemporanei. Justin Blinder, americano che collabora con il New York Times, affronta quasi sempre temi sociali come la gentrificazione e la manipolazione d’informazioni, un lavoro sulla città di New York è “Vacated” che mira a raccontare la gentrificazione di Manhattan e Brooklin attingendo alla cache di Google streeet view realizzando GIF animate che con uno spostamento avanti e indietro fanno vedere le macerie e le immagini delle case che realizzate a computer, possono essere successivamente sostituite alle immagini precedenti. Blinder porta avanti il suo progetto con “Hyper-Blocks” che utilizza dati civici aperti per rivelare algoritmicamente blocchi di città costruiti di recente o modificati, questi blocchi vengono chiamati Hyper Gentrification, un fenomeno che crea micro quartieri nei quartieri stessi, e dà ai cittadini la possibilità di non spostarsi da essi ma li isola anche dal resto della metropoli.
Emilio Vavarella è un artista italiano che girando su street Veiw ha notato vari errori che creavano dei Glitch nelle immagini, “Il termine glitch è usato in elettrotecnica per indicare un picco breve ed improvviso (non periodico) in una forma d’onda, causato da un errore non prevedibile.” Il suo lavoro si sviluppa su altri due progetti, la storia della morte di un ragazzo e gli errori delle persone che scattano foto per street view mentre si inquadrano la faccia.